Autore: Bianca Ciceri

Al fine di raggiungere uno sviluppo sostenibile è necessario “assicurare la salute e il benessere per tutti e per tutte le età”. Su queste premesse è strutturato il terzo Obiettivo dell’Agenda ONU 2030.

“Proteggere la salute materna e quella infantile, porre fine alle epidemie di malattie trasmissibili e al disagio mentale, combattere le conseguenze di fumo, alcol e sostanze stupefacenti, consentire a tutti l’accesso ai servizi essenziali di assistenza sanitaria e la disponibilità di farmaci di base e vaccini” (fonte)

Sono senz’altro obiettivi ambiziosi che, con l’anno segnato dal Covid-19, hanno assunto un carattere particolare rendendo ancora più evidente la necessità di sistemi sanitari accessibili atti a garantire, a livello universale, il diritto alla salute.

É indubbio che negli ultimi anni siano stati fatti grandi progressi nel campo della sanità, ma è altrettanto innegabile il divario, ancora presente, tra Paesi ricchi e Paesi poveri.

Mentre per i Paesi occidentali l’aspettativa di vita ha subito un rilevante incremento — nell’età preindustriale si aggirava attorno ai 30 anni e arriva oggi a 72 — questo dato rimane ancora molto basso nei Paesi poveri dimostrando, ancora una volta, la necessità di condizioni di salute e benessere che si possano realmente definire universali. Questo gap si registra in particolare in riferimento ai primi due Traguardi (target) associati all’Obiettivo 3, salute infantile e salute materna. Per quanto concerne la salute infantile

“basti pensare che i bambini nati in condizioni di estrema povertà hanno quasi il doppio delle probabilità di non sopravvivere oltre il quinto anno d’età, rispetto ai bambini nati in famiglie benestanti”. (fonte)

Ancor più preoccupante è il tasso di mortalità maternache, sebbene nei Paesi sviluppati risulti diminuito del 50% dal 1990, rimane 14 volte maggiore nei Paesi in via di sviluppo.

Anche i dati relativi all’esposizione al contagio di malattie infettive, come la malaria, mostrano questa profonda disuguaglianza.

La crisi generata dalla pandemia ha intensificato ulteriormente questo divario, basti pensare alla distribuzione dei vaccini nei diversi Paesi, rendendo evidente la necessità di introdurre elementi di innovazione culturale e gestionale nel campo della sanità.

Un’unica salute: l’approccio One Health

«La Pandemia del 2020 ci ha scossi come una tempesta… L’unica strada che abbiamo per non ricaderci mai più è quella della prevenzione: riusciremo a percorrerla solo con la consapevolezza che viviamo all’interno di un sistema circolare e integrato di cui fanno parte persone, animali, piante e in generale l’ambiente in cui tutti siamo immersi». (Ilaria Capua)

In particolare vi è l’urgenza di adottare un programma unitario e onnicomprensivo in cui la salute sia considerata come un sistema circolare e integrato, in cui vi è un’unica salute (One Health) per animali, uomini e ambiente. Il modello One Health propone un approccio olistico nel quale la salute viene trattata in un’ottica interdisciplinare.

Il termine One Health viene introdotto per la prima volta nel 2004 a seguito della conferenza “One World, One Health: Building Interdisciplinary Bridges to Health in a Globalized World organizzata dalla Wildlife Conservation Society (WCS). Da quel momento tale idea fu adottata da diverse istituzioni fino alla creazione, nel 2009, della One Health Commission (OHC), un’organizzazione il cui obiettivo è il miglioramento della salute umana, animale e ambientale attraverso un’intensa attività di cooperazione internazionale.

Nonostante la sua recente introduzione la cultura One Health si può già trovare in diversi documenti ufficiali proposti nel corso degli ultimi 40 anni dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità):

  • La dichiarazione di Alma Ata del 1978
  • La carta di Ottawa del 1986
  • Salute 2020 del 2012 
  • Dichiarazione di Shanghai del 2016

Malgrado il riconoscimento da parte dell’OMS, queste raccomandazioni raramente sono state prese in considerazione, incentivando così il perdurare, nel campo della salute, di una governance sempre più debole. 

Il modello One Health chiarisce la relazione tra la salute umana, animale e ambientale e rende evidente il contributo degli esseri umani alla nascita della pandemia. Le varie attività umane che mettono a rischio la biodiversità — deforestazione, cambiamenti nell’uso del territorio, agricoltura e allevamenti intensivi, commercio e consumo di animali selvatici — hanno infatti incentivato il passaggio di agenti patogeni dagli animali agli esseri umani. Tra queste la deforestazione è una delle principali cause che danno vita al fenomeno della zoonosi — il passaggio di malattie dagli animali agli uomini— poiché nelle aree deforestate varie specie di animali selvatici entrano in contatto con la specie umana “rappresentando così un potenziale hotspot di diffusione di virus e malattie […] Quindi, tutte le volte che distruggiamo gli ecosistemi ci esponiamo a nuovi virus perché creiamo condizioni straordinarie di proliferazione”. 

L’approccio che propone questo nuovo modello ha l’obiettivo di gestire l’attuale situazione pandemica, ma anche prevenirne di future. Il metodo è quindi quello dell’interdisciplinarità, attraverso una seria collaborazione tra varie discipline: dalla medicina umana e animale alle scienze sociali.

Infine, oltre a un dialogo proficuo tra differenti discipline, è fondamentale un confronto maggiormente costruttivo, non solo sovranazionale ma anche all’interno dei singoli Paesi.

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