Migranti climatici: le catastrofi ambientali sono una delle principali cause di migrazione.

Migranti climatici: il caso del Bangladesh”.

Norman Myers, docente di Oxford, propone una stima di 150 milioni di migranti climatici entro il 2050, una cifra da considerare con cautela ma che mostra la portata di questo fenomeno e la necessità di analizzarlo più accuratamente. 

Se è vero che il cambiamento climatico non è marcato da confini e distinzioni di genere o etnia, è altrettanto vero che non genera gli stessi effetti in ogni parte del mondo. Le conseguenze del cambiamento climatico hanno un maggiore impatto nei paesi del Sud del mondo, poiché incidono su situazioni già di per sé di grande vulnerabilità. . 

Quando si parla di migranti climatici spesso si fa riferimento a eventi catastrofici quali uragani o cicloni, ma essi sono solo una delle possibili cause.

I fattori ambientali che costringono le persone a spostarsi possono essere inseriti in tre grandi categorie:

i fattori di degrado ambientale di lungo termine; 

i disastri naturali;

le catastrofi ambientali.

Nella prima possono essere inclusi tutti quei cambiamenti ambientali di lenta comparsa quali carenza di terreno coltivabile, deforestazione, desertificazione, erosione del suolo, scarsità idrica e siccità, scioglimento dei ghiacciai e innalzamento del livello dei mari.

La seconda include tutti gli eventi ambientali estremi quali cicloni, alluvioni e terremoti.

Infine, nell’ultima categoria rientrano gli sconvolgimenti ambientali causati da progetti di sviluppo; si pensi alla strage avvenuta a Bhopal nel 1984, quando la fuoriuscita di sostanze tossiche da uno stabilimento specializzato nella produzione di fitofarmaci ha provocato la morte di migliaia di persone.

Nonostante il riconoscimento di questi fattori nello spostamento di milioni di persone i “profughi climatici” non sono ancora riconosciuti come “rifugiati”. La convenzione di Ginevra del 1951 definisce “rifugiato” colui  che: 

[] temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova al di fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese, ovvero che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.

Tale definizione non include coloro che migrano a causa di cambiamenti climatici e, nonostante gli Accordi sul clima di Parigi del 2015 abbiano sollecitato un riconoscimento giuridico dei migranti ambientali, ad oggi questa categoria non esiste.

Migranti climatici: Il caso del Bangladesh

Migranti climatici

Il Bangladesh è uno dei paesi che maggiormente subisce gli effetti del cambiamento climatico,  sebbene le emissioni di gas serra annue per abitante non superino i 200 kg (l’Italia è responsabile dell’emissione di 9 tonnellate).

È l’ottavo paese più popoloso al mondo, con una popolazione superiore ai 160 milioni di persone su una superficie che è metà di quella italiana e, ad eccezione di alcune città-stato, presenta la più alta densità di popolazione. 

Le precipitazioni sono abbondanti in tutto il paese, ma si concentrano maggiormente nella zona costiera, sul Golfo del Bengala. Qui, dove si alternano isole e foreste di mangrovie (Sundarban), vivono circa 40 milioni di persone che subiscono costantemente gli effetti di disastrose alluvioni e dell’infiltrazione dell’acqua del mare. L’innalzamento del livello del mare infatti, oltre a incidere enormemente sull’economia delle persone residenti nella zona costiera, causa l’infiltrazione di acqua salina nei fiumi, nei laghi e nelle falde acquifere incidendo in questo modo sulla disponibilità di acqua potabile.

Altri fattori che contribuiscono a rendere quest’area ancora più vulnerabile e potenzialmente produttrice di profughi climatici sono deforestazione, ship-breaking e acquicoltura intensiva. Si tratta di pratiche che implicano uno sfruttamento delle risorse con conseguente degrado dell’eco-sistema.

Il Bangladesh è un paese storicamente interessato dai flussi migratori, ma gli effetti del cambiamento climatico e di progetti di sviluppo non sostenibile uniti all’incremento demografico e alle condizioni di povertà in cui si ritrova gran parte della popolazione hanno aumentato la portata di questo fenomeno.

I maggiori flussi migratori avvengono all’interno del paese, dalle aree rurali alle grandi città, in particolare verso la capitale Dacca, dove risiede la maggior parte della popolazione e dove il 40% dei cittadini vive negli slum, quartieri informali in cui aleggia povertà e criminalità.

“La maggior parte dei migranti che arriva in città non riesce a trovare sistemazioni migliori e quindi finisce per ingrossare questi quartieri già problematici, in cui rischia di finire vittima di dinamiche di sfruttamento del lavoro, nuove forme di schiavitù o ancor peggio di traffico di esseri umani”.

Per molti, quindi, l’unica soluzione è uno spostamento verso l’estero dove giungono spesso come clandestini,  causa di un loro mancato riconoscimento giuridico.

Riconoscere l’esistenza di questa categoria di persone e le cause del loro spostamento sono i primi passi da compiere per la lotta al cambiamento climatico.

Non si tratta più di accettare o meno l’esistenza del cambiamento climatico, esso esiste e i suoi effetti sono testimoniati dalla vita di migliaia di persone costrette a lasciare la propria terra d’origine e la propria famiglia per spostarsi, spesso illegalmente, in altri luoghi.

L’obiettivo ultimo dovrebbe essere eliminare, o al più ridurre, le motivazioni che spingono queste persone a migrare, attraverso l’elaborazione di sistemi di sviluppo ecologicamente sostenibili opposti agli attuali modelli di modernizzazione e distruzione dell’ambiente.

Fonti dell’articolo:

Risucci M., (A.A. 2011/2012), Tesi di laurea magistrale, Migrazioni e cambiamenti climatici: il problema aperto dei profughi ambientali, Università di Pisa, p.47.

N. Morandi e P. Bonetti (a cura di), Lo Status di Rifugiato, scheda Asgi, 2013.

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